Editore: Il Palindromo
Collana: I tre sedili deserti
Data di pubblicazione: Maggio 2021
Pagine: 328
Formato: Copertina flessibile
Prezzo di copertina: 23 €
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Gustav Meyrink (1868-1932), il “modellatore di fantasmagorie”, è riuscito a coniugare il neoromanticismo nordico con l’irrazionalità del trascendente. Insieme a K.H. Strobl, O.H. Schmitz e A. Kubin, Meurink figura tra gli interpreti principali della Schauerliteratur, traducibile approssimativamente come “letteratura del brivido”.
La secolare arte spiritualistica e misterica veicolata da Meyrink è circonfusa dal velame allegorico tipico del mito che, «mentre per intelligenze aperte adombra significati cosmici, vie di potenza ed esperienze a carattere d’eternità, per i profani non è che l’ingenuità della favola con aderenze alla vita puramente esterioristiche, o la trasformazione fantastica di un immanente positivismo storico, al quale soltanto lo studioso deve tendere per ricostruire la realtà della vicenda dell’uomo»[1].
Il fantastico di Meyrink non è dunque un furbo speculare sul filone aurifero dell’esoterismo, ma una rimodulazione di esperienze trasformative vissute in prima persona, collaudate nel corso di una ricerca spirituale tesa al ricongiungimento con la tradizione unica, la sola in grado di accendere sull’esistenza la somma luce della conoscenza. L’investitura mistica di Meyrink avviene in una fase cruciale della sua vita, le cui circostanze, seppur testimoniante da lui stesso, appaiono fin troppo didascaliche ed ermeneutiche – nell’accezione fenomenologica di Heidegger – per risultare credibili. Fatto sta che Meyrink, nel momento del passaggio all’età adulta, versa in una depressione tale da contemplare il suicidio. Ha una pistola in mano, pronto a compiere il gesto estremo, quando da sotto la porta dello studio vede spuntare un opuscolo intitolato La vita dopo la morte. È la chiave per il salto di coscienza: Meyrink abbandona l’idea di spararsi e si concentra sulle implicazioni dell’immaterialità. Cosa nasconde la realtà? Da quell’istante ha inizio il percorso iniziatico dello scrittore austriaco, affinatosi in special modo durante i soggiorni a Praga, Vienna e Monaco, dove tra circoli iniziatici e indottrinamenti di ogni sorta egli distilla la linfa della propria creatività. Al pari della coeva Dion Fortune, mi viene da pensare, egli si è servito della narrativa «come di qualcosa che, riuscendo a soddisfare sia l’esoterico che lo spiritualista, potesse servire da via verso le soglie dell’inconoscibile a chi già fosse mosso da una predisposizione interiore»[2].
A Praga, città esoterica per antonomasia, nel 1901 Meyrink inaugura la carriera di scrittore. Già dal 1890 vanta una reputazione di occultista, alle prese con scienze affatto convenzionali quale la parapsicologia. È stato sin da giovane un vorace studioso dell’intelligibile, imbarcatosi nei ghirigori della Gnosi, dello Yoga, dei Misteri, della Cabala, della Teosofia, dell’alchimia e dell’antroposofia. Egli stesso confessa: «non riuscivo a togliermi dalla testa la sensazione che una forza superiore stesse orientando la mia formazione. […] Ero preda di una vera e propria ossessione: trovare, trovare, trovare…»[3]. Il frutto dei suoi studi lo potete apprezzare nell’ottimo volume Alle frontiere dell’occulto. Scritti esoterici (1907-1952), uscito per le Edizioni Arktos nel 2018.
Da sottolineare anche la frequentazione del rinomato medium Alois Mailänder, in arte Fratello Johannes, la militanza in logge iniziatiche (fondandone persino una nel 1891, la Loggia della Stella Blu) e l’assunzione di droghe per amplificare la percezione coscienziale e l’immaginazione, un abuso in seguito rivalutato negativamente.
Nel 1901, dicevamo, l’allora trentatreenne Meyrink viene sollecitato dall’amico Oscar Schmitz a proporre uno scritto al famoso settimanale umoristico “Simplicissimus”. Il racconto inviato, Der heisse Soldat (Il soldato bollente), trova spazio sul numero 29 del 29 ottobre 1901, permettendo all’autore di cambiare il cognome Meyer nello pseudonimo Meyrink. Tale scelta, ipotizza Gianfranco de Turris, «potrebbe anche essere stata motivata dalla necessità di tenere separate le due attività (di banchiere e di scrittore), nonché dal bisogno di mettersi al riparo dal biasimo e dai fastidi (che poi comunque non mancarono) che potevano nascere dal tono critico dei suoi scritti»[4].
Alla vena satirico-grottesca degli esordi, che lo ha reso una penna di punta di “Simplicissimus”, si accostano racconti in cui il fantastico abbraccia l’esoterismo e il macabro. Il tutto in un arco temporale che va dal 1901 al 1908, dal quale sono stati pescati i 28 racconti antologizzati nel volume La morte viola, pubblicato inizialmente nel 1989 dalla Reverdito, poi nel 2011 dalla Coniglio Editore (fallita dopo tre mesi), e nel maggio 2021 da il Palindromo, la cui giovane collana “I tre sedili deserti” vanta già alcune eccellenze del fantastico (una di queste, I navigatori dell’infinito – Gli astronauti di J.-H. Rosny aîné, l’ho recensita qui).
Quest’ultima edizione si apre con una sintetica prefazione di Andrea Scarabelli e si chiude con un corposo contributo di Gianfranco de Turris (presente anche nelle due edizioni precedenti). I racconti, al di là del piglio satirico-grottesco o macabro-esoterico, possono essere organizzati secondo degli specifici nuclei tematici il cui comune denominatore è la critica a un mondo vacuo, spiritualmente sopito, dove agli abbacinanti proclami della scienza si accavallano quelli di pseudo profeti promotori di false credenze. Essendo un cercatore della misteriosofia autentica, nei suoi articoli Meyrink si è sempre premurato di smascherare i ciarlatani. La sua crociata acquista ancora più prestigio se consideriamo l’epoca storica – lo scoccare del XX secolo – in cui l’uomo assiste all’alba dell’età tecnologica davanti la lapide del Sacro. L’unica fede è rivolta all’onnipotenza della tecnica assurta a «un significato cosmologico»[5], creatrice di una realtà completamente nuova nella quale la meccanicizzazione prevale sulla natura, artificializzando l’intera esistenza. Ormai l’Occidente, annota Pietro Mander, ha imboccato la strada senza ritorno della «svalutazione della realtà ontologica del popolo, ridotto a mera somma meccanica di individualità atomizzate.
L’insoddisfazione che la democrazia stava creando, a causa della sua crisi di credibilità, a cavallo della Prima Guerra Mondiale, ha lasciato lo spazio perché dal suo tronco principale si distaccassero i due rami delle due ideologie del “partito unico”, che, del tronco principale, hanno conservato nel loro DNA il collettivo (moltiplicazione dell’individuale su un piano orizzontale, anche se non solo come mera somma), escludendo il concetto di ascesa verso una realtà di ordine superiore»[6].
In un tale contesto Meyrink fa della satira e del perturbante gli strumenti di denuncia a carico di un mondo in avaria. Leggendo i racconti de La morte viola si arguisce quali siano i principali colpevoli.
Ne Il soldato bollente fa capolino, dietro il sarcasmo, l’antimilitarismo dell’autore. Wenzel Zavadil, soldato di origine Boema, viene portato nel campo base vietnamita per ricevere delle cure. La sua temperatura corporea aumenta fino a toccare i 100 gradi, incenerendo gli oggetti nelle vicinanze. Wenzel trascorre la convalescenza nel tempio della dea induista Parvati (“Figlia della montagna”), dove i monaci si servono della sua anomalia per arrostire il pollo.
In La morte viola e Petrolio! Petrolio! affiora l’insofferenza verso il cinismo della borghesia, colpevole dei disastri globali derivanti dall’appropriazione indebita dei misteri sapienziali o dal fanatismo emulativo. Nel primo caso Sir Roger Thornton e il suo domestico afgano, Pompejus Jaburek, vogliono impadronirsi dei segreti della magia tibetana. Si inoltrano in una valle dell’Himalaya cinta da vapori tossici, dove incontrano una popolazione le cui arti oscure sono in grado di liquefare i nemici in piramidi violacee. L’azzardo dei due esploratori costa caro al genere umano, che rischia di venire cancellato.
In Petrolio! Petrolio! il personaggio di Kunibald Jessegrim decide di imprimere una svolta alla sua sventurata carriera proclamandosi un moderno Gengis Khan, l’inarrestabile condottiero figlio di Shiva. La fortuna torna dunque ad arridergli. Kunibald diventa un ricco petroliere ma, non pago del successo ottenuto, insiste nell’incrementare la portata dei giacimenti finendo per scatenare un disastro ecologico immane.
Non manca la critica all’incauto assoggettamento scientista della società, la cui tenuta si conferma fallace contro gli assalti dell’irrazionale. Un esempio è La sfera nera, dove si narra che nel Sikkim, regione asiatica a sud dell’Himalaya, un popolo incolto ha realizzato un’invenzione prodigiosa: un’ampolla capace di materializzare i pensieri di colui che la sorregge. Due indiani rinvengono l’arcano manufatto e lo portano in Occidente, ignari della sua pericolosità. Infatti la sfera nera funge da ingresso per il Regno Negativo dell’Essere a cui fanno ritorno tutte le esistenze.
Dello stesso tenore è L’opale. Un artefatto indiano, collegato alla dea della distruzione Dhurga, scatena un maleficio ai danni dei due uomini che lo hanno rinvenuto, trasmutando i loro occhi nel minerale colloidale.
Un altro reperto sbalorditivo lo troviamo ne La goccia della verità. Si tratta di una fiala contenente un preparato alchemico capace di aprire squarci nell’universo astrale (quello dello spirito). Un ulteriore composto alchemico condiziona la trama di Coagulo, infarcita di tesori nascosti ed evocazioni cabalistiche di antichi demoni.
Scoviamo poi recrudescenze decadenti debitrici a Edgar Allan Poe e al Joris-Karl Huysmans più sulfureo. Mi riferisco a L’uomo sulla bottiglia e Bal macabre, sarabande di maschere umane impegnate in una lugubre commedia; oppure a Febbre, pervaso dal simbolismo cimiteriale del corvo.
Altamente straniante, a mio avviso, si è rivelato Le piante del dottor Cindarella. Nel segreto del suo laboratorio il sinistro dottore porta avanti occulti esperimenti che pervertono la realtà in orrori senza nome. Gianfranco de Turris colloca questa storia tra gli esemplari più caratteristici dell’“Espressionismo” di Gustav Meyrink.
Vi lascio con queste coordinate nodali per orientarvi negli altri racconti, dove potrete divertirvi a scovare la miriade di sottintesi che compendiano il messaggio finale dell’autore. Convengo nuovamente con de Turris quando precisa che «certe volte il narrare risulta un po’ pesante, affastellato com’è di precisazioni, di particolari incastri gli uni negli altri […]. Ma è un ostacolo che si supera, perché l’enigmaticità della vicenda e la potenza occulta di certe immagini ti prende e non ti lascia sino alla fine, dove peraltro non sempre il mistero viene sciolto»[7]. Questo perché la prosa di Meyrink è da intendersi in maniera anagogica, funzionale cioè alla conduzione dal senso letterale a quello più alto e mistico.
Mi hanno sempre appassionato quegli autori che traspongono nelle proprie opere delle esperienze esoteriche. Tra i tanti ricordo Edward Bulwer Lytton, William Butler Yeats, Aleister Crowley, Dion Fortune, Algernon Blackwood, Arthur Machen e, ovviamente, Gustav Meyrink, le cui storie gli sono valse uno scranno nella cerchia elitaria dei Demiurghi del Fantastico.
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[1] M. Scaligero, Misticismo e narrativa. Che cosa c’è in Meyrink, in AA.VV., Meyrink scrittore e iniziato, Basaia Editore, Roma 1983, p. 18.
[2] Ivi, p. 23.
[3] G. Meyrink, La metamorfosi del sangue. Autobiografia spirituale, Bietti, Milano 2020, p. 45.
[4] G. de Turris, Meyrink tra macabro e grottesco. Temi e simboli dei racconti 1901-1908, in G. Meyrink, La morte viola, il Palindromo, Palermo 2021, pp. 260-261.
[5] N. Berdjaev, Pensieri controcorrente, La casa di Matriona, Milano 2007, p. 47.
[6] P. Mander, Introduzione, in G. Seri (a cura di), Mistero e arcano immaginario nell’opera di Gustav Meyrink, Tipheret, Roma 2016, pp. 13-14.
[7] G. de Turris, Op. cit., p. 300.
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