Editore: Il Palindromo

Collana: E noi sull’illusione

Data di pubblicazione: Novembre 2019

Pagine: 149

Formato: Copertina flessibile

Prezzo di copertina: 15 € 

Ebook: /

 

 

 


… E morirono tutti infelici e scontenti

Come può una fiaba concludersi in questo modo, disattendendo il tipico copione a cui ci hanno abituato i cartoni della Disney? In verità ci sarebbe da discutere su certi contenuti propinati dalla multinazionale statunitense, ma non è questo il mio intento.

Converrete comunque sull’esistenza di fiabe che sfoggiano con disinvoltura un profilo ambiguo, molte delle quali sono diventate dei classici a seguito di mirati trattamenti di ingentilimento. Un esempio è Pinocchio, fiaba di formazione per eccellenza, metafora senza tempo di riscatto personale mediante un travagliato percorso metamorfico di apuleiana memoria.

Una delle illustrazioni di Simone Stuto

E se invece ci imbattessimo in una versione alternativa dei fatti, scoprendo che il burattino non ha mai voluto redimersi realmente? In tal caso conosceremmo un Pinocchio insanabile, stolido fino alla fine nel prediligere le scorciatoie più riprovevoli, infischiandosene dei saggi consigli altrui e dei sacrifici del padre che, pur sul lastrico, antepone la serenità del figlio alle ristrettezze in cui versa. In questa prima, oscura versione della storia il burattino pagherà a caro prezzo le sue malefatte, senza indulgenza alcuna. Persino nell’ultimo atto di pentimento, forse l’unico sincero, il protagonista viene ricambiato dalla sorte con altrettanto menefreghismo. Tale è la versione riproposta dall’editore Il Palindromo nel volume Pinocchio. La storia di un burattino, ottimamente curato da Salvatore Ferlita e riccamente illustrato da Simone Stuto.

Ma partiamo dall’autore, Carlo Lorenzini (1826-1890), in arte Collodi[1]. È stato uno scrittore e giornalista fiorentino. Non solo uomo di penna, ma anche d’azione: partecipa come volontario a entrambe le guerre d’indipendenza, prima nel 1848 tra le fila del battaglione toscano, combattendo la battaglia di Curtatone e Montanara, poi nel 1859 presso il reggimento sabaudo dei Cavalleggeri di Novara. Tornato a casa dopo il primo conflitto, si dedica al giornalismo umoristico fondando, sempre nel 1848 insieme al nipote Paolo Lorenzini (anch’egli scrittore sotto lo pseudonimo di Collodi Nipote), il quotidiano satirico “Il Lampione”, cessato l’anno dopo e poi ripartito nel 1860 fino al 1877. Intanto Carlo Lorenzini prosegue le collaborazioni con diverse testate umoristiche tra cui “La Lente”, sul quale nel 1856 si firma per la prima volta come Collodi. Prima di giungere alla sua opera più famosa va ricordata una tappa fondamentale, la traduzione de I racconti delle fate (1876), contenente le storie di tre grandi favolisti francesi (Madame Le Prince de Beaumont, Madame d’Aulnoy e Charles Perrault) che traghettano Collodi in un mondo incantato, facendogli scoprire la favola suprema di Amore e Psiche (ripresa da Madame d’Aulnoy ne La gatta bianca).

Carlo Collodi

Grazie alla scintilla innescata da I racconti delle fate, il genio di Collodi porta a compimento la sua creazione il 7 luglio 1881, quando sul primo numero del “Giornale per i bambini” ha inizio l’avventura di Pinocchio con il titolo La storia di un burattino, a cui seguono altre sei puntate prima dello scioccante finale divulgato il 27 ottobre 1881. La cadenza degli appuntamenti procede con irregolarità a causa dello scetticismo dell’autore circa il gradimento del pubblico, nonostante gli incoraggiamenti del direttore Ferdinando Martini. Il lavoro viene comunque ultimato, scansionato in 15 capitoli in accordo con le esigenze editoriali stabilite dal caporedattore Guido Biagi. Tuttavia l’esito bruscamente tragico della trama solleva parecchie lamentele tra i giovani lettori del “Giornale”, tanto da indurre la redazione a convincere Collodi nel rettificare il finale e allungare la storia. Nel febbraio 1883, ampliata e reintitolata Le Avventure di Pinocchio, l’opera viene pubblicata in volume presso la Libreria Editrice Felice Paggi, con le illustrazioni di Enrico Mazzanti. Stavolta assistiamo a un finale pedagogico, dove finalmente il burattino irresponsabile evolve in un educato bambino in carne e ossa. L’opera, così riadeguata, guadagna il riconoscimento universale di fiaba moderna per eccellenza, superando nel corso del Novecento le duecento traduzioni in tutto il mondo.

Personalmente preferisco la prima stesura, ben più cupa e brutale di quanto spetterebbe a un pubblico giovanissimo, per il quale la lettura di alcune scene deve essere stata un’esperienza scioccante. Pensiamo ad esempio all’uccisione del Grillo-parlante, spiaccicato sulla parete con la testa fracassata dal manico di un martello scagliato da Pinocchio, insofferente alle ramanzine moraliste del coscienzioso insetto. Altro momento cruento è l’inseguimento notturno di Pinocchio da parte del Gatto e la Volpe, intenzionati a derubarlo degli zecchini d’oro donatigli da Mangiafuoco. Quando i due banditi scoprono che il burattino li tiene nascosti in bocca, il Gatto prova a forzargliela con un coltello, ma Pinocchio reagisce strappandogli la zampa a morsi e sputandola a terra. Una scena decisamente splatter in una storia per l’infanzia. Ma non è finita: Pinocchio riprende l’angosciante fuga, tra incalzanti ombre e apparizioni spettrali, salvo poi essere raggiunto nuovamente dai due malintenzionati che iniziano a pugnalarlo. Ancora una volta l’assalto si rivela infruttuoso, poiché contro la sua scorza legnosa le lame degli assalitori vanno in frantumi. Esasperati, il Gatto e la Volpe decidono di impiccare il burattino alla Quercia Grande degli Assassini[2]. Questi, scosso dalle raffiche di un vento improvviso, sente il cappio serrarsi sempre più sul collo e, tra gli spasimi, rivolge un’ultima, inutile supplica al povero Geppetto.

E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito

Secondo l’interpretazione del filosofo Attilio Mordini, la dimenticanza di Geppetto nell’intagliare gli orecchi al burattino segna la condotta di quest’ultimo. «Nel simbolismo tradizionale i padiglioni auricolari sono di solito figura del retto ascolto della verità». Ne consegue che Pinocchio «la ode soltanto, non la raccoglie, non la fa sua; per questo i suoi propositi svaniscono quasi all’atto stesso che son formulati dall’intenzione. Pinocchio ha il naso lungo, vale a dire ha buon intuito, spiccata fantasia; ma senza il retto ascolto della verità è un intuito che cresce e si sviluppa dalla menzogna e nella sventatezza, una fantasia oziosa e priva del forte contenuto del vero»[3]. Ciò segnerà la sua rovina.

A ben vedere il drastico finale, pur con la sua moralità spietata, si dimostra molto più affine all’impietosità della vita reale di quanto non sia la versione edulcorata. Eppure le premesse iniziali incoraggiavano l’accostamento di Pinocchio a un enfant prodige: ancor prima di essere scolpito infatti, egli denota un carattere ben definito e una consapevolezza innata. Da quale arbusto magico abbia avuto origine (o forse un qualche spirito ancestrale vi è stato imprigionato in un secondo momento?) non è dato saperlo. Fatto sta, ravvisa Pietro Citati, che quel ciocco di legno «possiede una fermissima esperienza della vita umana: sa cos’è la scuola, il lavoro e il vagabondaggio, l’infanzia e la vecchiaia, quali lusinghe impietosiscono il cuore di un uomo, quale retorica i grandi impongono ai bambini, come si cuoce un uovo e si sbuccia una pera. Qualche capitolo più tardi, nel teatrino di Mangiafuoco, abbiamo la rivelazione definitiva. Sebbene sia appena nato, Pinocchio è sempre stato un burattino famoso, come Arlecchino, Pulcinella e Rosaura»[4].

Ma, ormai si è capito, in questa non-fiaba ogni rosea aspettativa viene capovolta, sicché il promettente enfant prodige si rivela un enfant terrible, perennemente allergico alla buona condotta. Inoltre la pietra tombale apposta sul finale, culmine di una caccia selvaggia gravida di allusioni infernali, in un crescendo di funerea spettralità e macabre premonizioni, risponde a uno specifico proposito anticonsolatorio, tipico della narrativa del terrore. Italo Calvino arriva addirittura a considerare Pinocchio «l’unico romanzo italiano […] da ascrivere al Romanticismo nero e fantastico»[5].

Persino le circostanze della nascita, rileva Giorgio Manganelli nel bellissimo Pinocchio: un libro parallelo (2002), lascerebbero presagire l’infausta deriva del protagonista. «È un fatto che in Pinocchio non v’è nulla di primaverile: non è un fantolino miracoloso, un momento di gioia, ma è certamente un esempio di nascita temeraria. Il mondo gli si rivela nella nottataccia di lampi e tuoni, nella neve, nella fame, nell’attentato del fuoco, nella miseria […]. Come altre figure magiche, egli è nato in uno scoscendimento del mondo, accerchiato dalla sventura, assistito da tremuli ed ambigui affetti»[6].

La dolce fata dai capelli turchini, presente nella versione più nota della fiaba, qui è una Bambina affetta da un pallore mortuario, in attesa di una bara che la prelevi dalla candida casetta nel bosco dove sono deceduti tutti gli inquilini. Pinocchio vi giunge durante la fuga forsennata dal Gatto e la Volpe che vogliono fargli la pelle. Spera di trovarvi rifugio, e invece si vede negato l’accesso dalla Bambina che, affacciatasi alla finestra, si limita a informarlo distrattamente sulla propria condizione. Come da tradizione, essendo situati in un fitto e sinistro bosco, dimora e occupante rispondono ai requisiti della maga/strega nell’eremo incantato, nido di portenti ultraterreni, strettamente legato al simbolismo della magia lunare: soglia del reame degli spiriti, limbo dei trapassati in attesa di rinascita, archetipo femminile mutevole e trasmutatore. Potremmo pertanto incasellare la Bambina dai capelli turchini nella categoria delle tenebrose regine lunari, stavolta magari prigioniera anziché artefice di malie sovrannaturali. Al riguardo, sottolinea ancora Manganelli, «l’apparizione improvvisa alla finestra potrà essere una supplica, una occulta richiesta d’aiuto. Non v’è dubbio che Pinocchio abbia incontrato una potenza incantata. Questa potenza è anche la prima creatura femminile non burattinesca che appaia lungo l’itinerario di Pinocchio»[7].

Dopo l’ambiguo incontro con la piccola dama pallida, femminilità morta e mortale tipica delle diramazioni letterarie più fosche del Romanticismo, Pinocchio ha le ore contate. È come se imbattendosi in un essere dell’oltretomba ne abbia contratto il fatale destino. Una maledizione da cui entrambi verranno riabilitati nella versione rabbonita della storia, assurgendo a una rinascita redentrice. Ma nella concezione originaria della vicenda Collodi non dà adito ad alcun rasserenamento, anzi l’innocenza per antonomasia della fanciullezza viene spazzata via nel momento in cui la Bambina si rende complice del tragico destino del burattino, occludendogli con algido disinteresse l’unica possibilità di salvezza e lasciandolo in balia degli assassini.

Alla fosca luce di queste chiavi di lettura, il primo Pinocchio si rivela una storia decisamente accattivante, impreziosita da sottili fascinazioni conturbanti che si torcono in una matrice di oscurità romantica. Merito dunque ai tipi de Il Palindromo per aver riproposto questa edizione avvalorandola con le bellissime illustrazioni di Simone Stuto, capace di immortalare nei fuligginosi grovigli del suo tratto l’anima nera che pervade l’intera vicenda, frutto di chissà quali capricci annidati «nella mente di quell’imperterrito fumatore di toscani»[8] che era Collodi.

 

 

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[1] Collodi è un omaggio dell’autore al borgo in provincia di Pistoia dove ha trascorso l’infanzia.

[2] L’albero esiste realmente. Si trova nella villa Carrara di Gragnano, una frazione di Capannori, in provincia di Lucca. Viene chiamato la Quercia delle Streghe per via di alcune credenze popolari che narrano di antichi sabba officiati tra le sue fronde, cresciute in maniera anomala proprio a causa degli influssi magici.

[3] A. Mordini, Il segreto cristiano delle fiabe, Il Cerchio, Rimini 2007, p. 59.

[4] P. Citati, Il Male Assoluto, Adelphi, Milano 2013, p. 342.

[5] S. Ferlita, Il Pinocchio rimosso, in C. Collodi, Pinocchio. La storia di un burattino, Il Palindromo, Palermo 2019, p. 131.

[6] G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano 2002, p. 57.

[7] Ivi, p. 88.

[8] P. Citati, op. cit., p. 342.


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