Editore: Acheron Books

Data di pubblicazione: Settembre 2020

Pagine: 308

Formato: Copertina flessibile

Prezzo di copertina: 13 € 

Ebook: 4,99 € 

 

 

 

 

 


Dopo l’intervista rilasciata giorni fa ai nostri microfoni (disponibile qui), scende in campo Christian Sartirana, partner di Luigi Musolino[1] nel tandem d’attacco dello Strän, il team di scrittori del neogotico piemontese che vanta in rosa il veterano Danilo Arona, fantasista della “Twilight Zone” di centrocampo. Tra parentesi, ritroveremo Arona proprio nel romanzo di cui mi appresto a parlarvi, figurando come autore di uno pseudobiblium rivelatore intitolato Universi Degenerati. Il tempo della fine.

Il romanzo in questione è Unborn, ultima fatica nonché primo romanzo di Sartirana, scrittore noto per le sue perturbanti incursioni nei covi del Male disseminati per il Bel Paese, alcune delle quali recensite proprio sul Crocevia dei Mondi (vedi Ipnagogica, Il Paese Tomba e lo slasher Queho, ambientato invece nella frontiera americana). Il registro macabro di Unborn onora al meglio i suoi predecessori, riproponendo, in un crescente collasso ontologico, le coordinate narrative ormai collaudate dall’autore: splatter sbrigliato, inquietudini esistenziali, spurgate di bestiali abomini e un angolo di mondo colonizzato dall’Inferno.

Il protagonista del romanzo è Lorenzo Fossano, un cacciatore di libri antichi che poi rivende nella sua piccola libreria, ubicata nel centro storico di Casale Monferrato, in Piemonte. Il più delle volte si trova a scartabellare tra robaccia di poco valore, cozzando con l’ignoranza e la presunzione di clienti che credono di avere per le mani chissà quale tesoretto, quando in realtà si tratta di ciarpame da destinare al macero. Eppure ogni tanto salta fuori qualche sorpresa. Un giorno come tanti Lorenzo viene contattato da un anziano di Robbia, titolare di una ditta di spedizioni, intenzionato a disfarsi di alcuni scatoloni colmi di volumi. Alcuni di questi appartenevano a un professore polacco di lingue antiche di cui si sono perse le tracce. Tra le scartoffie spiccano tre quaderni fitti di appunti e una sorta di Bibbia, nelle cui pagine fluiscono linguaggi strani, simili a geroglifici, composti da bizzarri intrecci di figure amorfe. Ma non è tutto, poiché nel desolato comune di Robbia, dove si era stabilito il professore scomparso, hanno luogo atroci accadimenti.

Quel paese è maledetto! Quante cose brutte succedono lì, eh? Non hai sentito del prete che si è ammazzato? E poi hanno bloccato i lavori dell’autostrada! E perché, che cosa ci hanno trovato sotto? Mica ce lo dicono!

L’incubo inizia ben presto a funestare la realtà, ghermendo in una cortina nebbiosa gli ignari cittadini. Il paesino sperduto si riscopre un utero infernale pulsante di follia che, dopo decenni di meticolosa inseminazione ad opera di aberranti entità cosmiche, è pronto ad abortire la sua progenie teratogena. Calza a pennello la riflessione di Carlo Bordoni sulla provincializzazione delle horror stories, dove si è infranta «l’antica convinzione che eventi straordinari possano accadere solo in luoghi straordinari. Ora invece s’insinua l’idea che l’imprevisto si nasconda anche nel luogo più banale e innocuo (la cronaca nera lo conferma con quotidiana frequenza) e hanno buon gioco gli scrittori italiani di genere ad ambientare le loro storie agghiaccianti in prossimità di casa nostra, con sadica puntualità»[2].

“Cos’era quel paesaggio fumante, oltre i vetri della finestra? Monti viscidi di oscurità che sbuffavano nebbia o miasmi, stritolati da volute di vene e arterie pulsanti. Quattro astri pallidi emanavano un chiarore gelido. Parevano globi oculari morti e fissati con degli spilli nella notte: gli occhi di un firmamento cieco, corrotte e in attesa”

Un topos di queste storie concerne il progressivo disfacimento ambientale causato dal sopravvento di un caos ultraterreno a cui si accompagna, per osmosi, il graduale decadimento psicofisico dei personaggi, quantomeno dei protagonisti. Unborn non si sottrae alla tradizione. Lorenzo Fossano tenta – penosamente sottolineerei – di annegare i propri fantasmi negli alcolici, finendo per compromettere ulteriormente la sua già traballante stabilità emotiva. L’alcol, tra l’altro, è stata la causa della rottura con Raffaella, al momento infatuata del suo laido superiore, tutta spocchia e niente scrupoli. Come se non bastasse, la madre di Lorenzo viene ricoverata in ospedale con il cervello in tilt, ossessionata da un voto a una madonna ambigua, che poco ha da spartire con l’Immacolata Concezione. Ancora più sconcertante è apprendere che il fanatismo della donna si protrae sin dalla nascita di Lorenzo, suggerendo l’implicazione del figlio in uno scellerato patto con chissà quali entità.

Al riguardo mi preme rilevare un tema ricorrente nella letteratura lovecraftiana, con cui Unborn stabilisce un evidente contatto. Mi riferisco al leitmotiv della discendenza maledetta, ovvero il tramandarsi di generazione in generazione di una dannazione impossibile da redimere (mi vengono in mente, ad esempio, La verità sul defunto Arthur Jermyn e la sua famiglia, I ratti nei muri e Il caso di Charles Dexter Ward). L’intera linea di sangue risulta inquinata da una corruzione insanabile, a prescindere dalla condotta degli sventurati ereditieri. L’esito è presto detto: la follia degenerativa coglierà puntualmente il discendente, portando a galla il suo retaggio infetto che sancirà il colpo di grazia alla sua rovinosa esistenza.

A quanto pare però, le disgrazie che adombrano il passato della famiglia Fossano rischiano di coinvolgere ancora più persone. Un codazzo di derelitti accorre al richiamo di sinistre campane che rintoccano nelle nebbie, andando ad infoltire il gregge umano che avanza inebetito verso il mattatoio. Qui si profila, tra le righe, il marchio de Il seme della follia (1994) di John Carpenter, altra musa di Sartirana. «Ormai il tempo è prossimo: il Seme sta per germogliare»[3].

La comunione d’intenti tra Sartirana e la pellicola di Carpenter è possibile coglierla soprattutto nel tema, esplorato da entrambi, che inquadra cinema e letteratura «come strumenti di terrore e di induzione alla follia collettiva: una concezione che viene esplicitamente espressa nel racconto di Lovecraft del 1920 Nyarlathotep. L’apocalittico e surreale senso di disordine e di decadenza, che si protrae come una sorta di contagio, è infatti molto analogo. Il mondo reale è manipolato da forze oscure sia nel film di Carpenter che in Nyarlathotep: forze che non provengono direttamente dall’uomo, ma da qualcosa che sta al di là, qualcosa di sconosciuto»[4].

Insomma, come avrete capito, Sartirana ha shakerato un cocktail destabilizzante, visionario e potente. Non vi resta che scoprire fin dove si spingerà la follia di questo romanzo che, al di là dell’orrore cosmico, offre diversi spunti di riflessione sulla società odierna: pregiudiziale, assuefattrice e opprimente. Forse l’unica scappatoia per l’uomo moderno, esposto quotidianamente a un estenuante logorio appercettivo, è compiere un balzo liberatorio nel baratro della follia.

 

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[1] Anch’egli ospite sul mio blog con una recensione (vedi qui) e un’intervista (vedi qui).

[2] C. Bordoni, Paure di carta. Indagini sulla letteratura fantastica, Emil, Bologna 2017, p. 182.

[3] C. Sartirana, Unborn, Acheron Books, Milano 2020, p. 209.

[4] D. Rossato, Il cinema lovecraftiano di John Carpenter, in P. Guarriello (a cura di), Studi Lovecraftiani 18, Dagon Press, Pineto 2020, p. 46.


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