Editore: Il Palindromo

Collana: I tre sedili deserti

Data di pubblicazione: Marzo 2020

Pagine: 262

Formato: Copertina flessibile

Prezzo di copertina: 18 € 

Ebook: /

 

 

 


È ormai risaputo che l’Ottocento ha dato uno scossone poderoso all’immaginario fantascientifico, da un lato fomentando l’entusiasmo verso le nuove potenzialità della tecnologia, dall’altro facendo fermentare un certo turbamento nei riguardi delle possibili derive della stessa. In modo particolare viene posto l’accento sull’insubordinazione scientista ai danni dello status naturae integrae, aprendo il dibattito spinoso sulla cosiddetta “Sindrome di Prometeo” che già animava lo spirito degli scienziati settecenteschi, e che nel secolo successivo trova il manifesto più compiuto nel Frankenstein di Mary Shelley.

La creazione prometeica della vita artificiale a propria immagine e somiglianza si coniuga, nel Settecento, con le ferventi sperimentazioni volte a rapportare l’uomo con la macchina. L’ibrido che ne deriva è un Adamo artificiale, emblema della ricerca avanguardistica che insegue l’immortalità e la generazione della vita dalla materia inorganica. È in questo periodo infatti che spopola l’interesse per gli automi, le cui capacità di riprodurre i piccoli gesti umani affascina e inquieta il pubblico. I progetti più famosi fanno capo all’inventore e meccanico francese Jacques de Vaucanson (1709-1782) – creatore dei celeberrimi il flautista, il tamburino e l’anatra meccanica –, ispirato dalle statue di Charles Antoine Coysevox che adornano i giardini delle Tuileries. Voltaire, nel suo Discours en vers sur l’homme (1734), reputa Vaucanson un “rivale di Prometeo”, in grado di animare la materia grezza.

Di grande successo è anche l’audace studio di Julien Offray de La Mettrie intitolato L’uomo macchina (1747), nel quale l’anima viene fatta corrispondere al mero intelletto, annullandone di fatto l’immanenza vitalistica indispensabile all’esistenza. Semmai sono le strutture anatomiche nella loro organicità, proprio come nelle macchine, a determinare gesti, comportamenti, pensieri e sentimenti. All’epoca questa considerazione ha provocato un tale scandalo da costringere La Mettrie a fuggire dalla Francia per sottrarsi alle persecuzioni ecclesiastiche.

In una simile temperie anche l’ambito della robotica, seppur ancora rudimentale, amplifica la sua risonanza al punto da guadagnarsi una voce nelle enciclopedie del tempo[1]. Nel 1751 il primo tomo dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, curato da Denis Diderot e Jean Baptiste le Rond d’Alambert, propone la definizione di androide come «automa avente figura umana». Nel 1818 nel primo volume dell’Allgemeine Encyclopädie der Wissenschaften und Künste viene specificato che il termine automa corrisponde a un costrutto meccanico che, mediante l’innesco di ingranaggi interni, riesce a replicare i movimenti di un essere vivente.

Si spalanca a questo punto un potenziale immaginifico senza precedenti sulle possibilità offerte dalla scienza. Non solo gli automi, ma anche i mondi inesplorati dello spazio, insieme alle forme di vita extraterrestri che potrebbero popolarli, diventano oggetto di speculazioni pressanti e ardite. La maratona futuristica incoraggiata dal progresso sembra voler sospingere l’uomo alla detronizzazione di Dio, usurpandone lo scettro demiurgico. Non a caso alla colonizzazione cosmica si accompagna l’ottimismo per la scoperta di rimedi utili a eludere la morte.

L’esaltazione generale, facendosi beffe di ogni criterio di plausibilità, sospinge la fantasia degli scrittori verso pioneristici viaggi interplanetari e alla scoperta di universi paralleli. Costoro perseguono un’estetica romantica – accavallatasi al materialismo di stampo illuminista insorto nel Settecento – interessata a sondare le zone d’ombra della scienza, sedi di una minacciosa lacerazione tra materia e spirito. L’esotismo astronomico che ne deriva rientra, pertanto, in quei processi di autodefinizione culturale dove l’alterità extraterrestre funge da turbamento dell’equilibrio originario, esponendolo a una ricodifica identitaria tramite cui resettare i propri pregiudizi oppure estremizzarli. Nel primo caso vengono messe a nudo le negatività che inficiano il giudizio comune, salvo poi evolvere, in certi contesti, in una rinnovata consapevolezza all’insegna dell’inclusività. Nel secondo caso invece la discriminazione del diverso funge da pretesto per additare quest’ultimo come una minaccia, nonché capro espiatorio su cui catalizzare (o tramite cui manipolare) le frustrazioni delle masse.

Nel generale rinfocolamento del sense of wonder fantascientifico, non va trascurato l’apporto divulgativo dell’astronomo francese Camille Flammarion (1842-1925), un fervente sostenitore della vita extraterrestre. Con le sue opere, che superano le cinquanta pubblicazioni, si è conquistato la fama di maggiore esperto in materia di areografia, la nuova scienza che indaga la superficie di Marte.

Rimanendo in terra di Francia, sintonizzati su questo afflato immaginifico sospinto da dibattiti etici ed esplorazioni marziane, facciamo la conoscenza dello scrittore J.-H. Rosny aîné (1856-1940), pseudonimo di Joseph-Henry Honoré Boëx. Il suo maggior successo commerciale è stato il romanzo preistorico La guerra del fuoco (1909), che nel 1981 ha persino ottenuto un riuscito adattamento cinematografico grazie al regista Jean-Jacques Annaud. Un’umanità agli albori è oggetto di ulteriori romanzi e racconti dell’autore francese, il quale da un certo momento decide di addentrarsi in speculazioni ben più futuristiche. Lungo quest’ultima rotta incappiamo nei romanzi brevi I navigatori dell’infinito (1925) e Gli astronauti (pubblicato postumo nel 1960), entrambi proposti per la prima volta in Italia dall’editore Il Palindromo nell’eccelsa collana del fantastico “I tre sedili deserti”.

Ne I navigatori dell’infinito l’umanità raggiunge una tappa epocale nella corsa allo spazio. Il matematico Antoine Lougre, il genio visionario della sperimentazione Jean Gavial e l’ombroso Jacques Laverande (protagonista e io narrante), amici di lunga data, si imbarcano sullo Stellarium per inaugurare il primo passo dell’uomo su Marte. Il pianeta rosso riserverà molti misteri, a cominciare dall’atmosfera fino alle strabilianti peculiarità di flora e fauna. Gli «pseudo-muschi raggiungevano la taglia dei nostri salici, gli pseudo-funghi sviluppavano pelurie lunghe come le nostre alghe, mentre gli alberi più elevati non superavano l’altezza di un nocciolo ed erano più tozzi dei nostri»[2]. Una vegetazione variopinta che «ricordava le sfumature delle foreste terrestri durante il periodo scoppiettante dell’autunno, in cui le fronde sembrano immensi mazzi di fiori»[3]. La fauna non è meno bizzarra: creature dagli occhi luminescenti disposti a grappolo su teste che, quando non ricordano quelle di certi animali terrestri, presentano forme assurdamente geometriche. Vi sono poi dei curiosi volatili a cinque ali, ribattezzati Aereani dai terrestri. Questi ultimi fanno anche la spiacevole conoscenza degli Zoomorfi, organismi con nove pseudo-arti adattabili alle esigenze motorie. Se minacciati, essi si difendono emettendo un’aura abbagliante capace di raggelare l’organismo bersaglio. I tre astronauti ne fanno le spese quando un esemplare gigantesco di Zoomorfo li prende di mira.

“Di colpo emise un immenso alone fosforescente, e mi sentii congelare fino alle ossa. Antoine, pallido, tremava. Jean si appoggiò alla parete, lo sguardo stravolto. Un secondo bagliore, meno vivido, ci colpì continuando a congelarci. Nello stesso momento provammo una sensazione indescrivibile, assolutamente angosciante, che mai avevamo sperimentato; sentivo il petto compresso, come se il mio cuore stesse per fermarsi” 

In un ecosistema tanto strabiliante non mancano forme di vita particolarmente intelligenti, con le quali gli umani si intrattengono in un proficuo scambio culturale, ricavandone un’appassionante ricostruzione della storia di Marte e della popolazione autoctona, per il cui fato risulta decisivo il ruolo inatteso dei terrestri.

Nel successivo Gli astronauti ritroviamo Jacques, Antoine e Jean in procinto di far ritorno su Marte, stavolta insieme al nuovo membro Violaine, sorella di Jean. In questo sequel la cultura marziana viene ulteriormente approfondita, soprattutto in termini di intercomunicabilità: lo spettro di interazioni tra umani e alieni si amplia, coinvolgendo altre forme di vita e sancendo nuovi punti di contatto mai sperati prima. Tale approccio rinsalda – rincarando quanto già mostrato ne I navigatori dell’infinito ­– la riflessione di Rosny aîné sulla sensibilizzazione verso un confronto costruttivo con il diverso, qui metaforizzato dall’alieno, «in favore dell’empatia e della comprensione. Questo tipo di approccio alla science fiction rende questi lavori incredibilmente attuali, vicini, per così dire, a quello che è il dibattito contemporaneo sulla diversità e sull’accettazione dell’altro. Non male per dei romanzi di quasi cento anni fa…»[4]. Tale caratteristica rende la voce di Rosny piuttosto originale nel quadro letterario della sua epoca, posizionandolo al polo opposto dell’ormai consolidato filone fantascientifico facente capo a Jules Verne. Rispetto a quest’ultimo, rileva Massimo del Pizzo, «Rosny aîné aspira a dare altre dimensioni congetturali al roman d’hypothèse e smonta il cumulo di premesse tecnico-tecnologiche del viaggio interplanetario, così come Verne lo aveva organizzato in Dalla Terra alla Luna (De la Terre à la Lune, 1865) per evidenziare il nucleo essenziale dell’avventura fantascientifica: l’incontro con l’Altro»[5]. Il viaggio rappresenta quindi «un invito a smarrirsi per ridisegnare poi, secondo una nuova cartografia fantastica, altre tappe esistenziali»[6].

Rosny aîné si colloca agli antipodi anche di un altro influencer della science fiction, ovvero H. G. Wells, e in particolar modo rispetto al suo romanzo La guerra dei Mondi (1898). Se lo scrittore britannico ha coniato lo stereotipo dell’alieno antagonista e colonizzatore, Rosny aîné ha riabilitato la figura marziana allocandola in un’utopistica dimensione di interculturalità formativa, grazie alla quale lo scambio relazionale non viene scoraggiato da differenze biologiche o incompatibilità comunicative. Al contrario queste lo incentivano, nobilitando una visione spiritualista su scala cosmica ricca di opportunità per ogni specie, le quali interagiscono per fini co-evolutivi anziché concorrenziali. Ovviamente non mancano forme di vita antagoniste, la cui minaccia viene scongiurata proprio dalla coalizione fraterna stipulata dagli avversari. Ennesimo esempio di come la chiusura all’accoglienza altrui porti, prima o poi, alla disfatta.

È soprattutto per l’elevata portata di questi messaggi etici, oltre che per la prosa in sé, che Rosny aîné viene indicato come un poeta della science fiction. L’incipit de Gli astronauti ne è un esempio emblematico:

I miei ricordi sono sospesi in un’atmosfera fiabesca. Una nostalgia densa di fascino, come questa sera di settembre, mi riporta «nella notte eterna, attraverso le oscurità spaziali», fino a quell’astro rosso dove ho vissuto per molte stagioni.

Lungo l’orizzonte occidentale, un timido baluginio si accende e s’invola verso il firmamento. Piccola amica della Terra, la luna color rame sorge, immensa, dieci volte più alta della chiesa di Saint-Michel: potrebbe tenere in grembo l’intero villaggio di Mièvres.

Continua a crescere, oscurando i colossali astri perduti tra le distese stellari, mentre il gracile Marte, un microbo nell’Infinito, è più luminoso, da qui, della tre volte più grande Sirio

In conclusione mi sento di confermare tutti i riconoscimenti che il mondo fantascientifico, seppure con colpevole ritardo, ha tributato all’autore francese non soltanto in termini di originalità creativa e sensibilità morale, ma anche per il notevole contributo che le sue opere hanno apportato all’ambito scientifico. Tralasciando qualche inesattezza, dovuta peraltro a una ricerca spaziale all’epoca tutta da perfezionare, Rosny aîné «ha creato un’epopea scientifica, ponendo, ne I navigatori del’infinito, le basi dell’astronautica futura, ed esponendo e divulgando, grazie a Terra inesplorata, il nucleo della teoria della relatività generale, in particolare l’equivalenza tra gravitazione e accelerazione. Non sarà inutile ricordare che ha introdotto nella lingua francese il termine astronautique e ha suggerito al signor André-Louis Hirsch la creazione del primo Premio di Astronautica, assegnato a scienziati come Robert Esnault-Pelterie e Wernher von Braun»[7].

Alla luce di quanto detto vi invito a rivolgervi alla biglietteria Il Palindromo e partire per questa sognante crociera interplanetaria a bordo dello Stellarium. A farvi da guida turistica non troverete solo la prosa ispirata di J.-H. Rosny aîné, ma anche i ricchi e puntuali approfondimenti degli esperti Sandro Pergamento, Massimo Del Pizzo e Jacques Bergier.

Buon viaggio…

 

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[1] Le prime tracce sono molto più antiche. Addirittura nel I secolo d.C. Erone di Alessandria scrive il trattato Sulla fabbricazione degli automi. Per il primo trattato moderno sull’argomento bisogna attendere il 1588, quando l’ingegnere italiano Agostino Ramelli dà alle stampe Le diverse et artificiose machine.

[2] J.-H. Rosny aîné, I navigatori dell’infinito ∞ Gli astronauti, Il Palindromo, Palermo 2020, p. 48.

[3] J.-H. Rosny aîné, Op. cit., pp. 48-49.

[4] S. Pergameno, Introduzione, in J.-H. Rosny aîné, Op. cit., p. 13.

[5] M. Del Pizzo, Rotte dell’infinito, in J.-H. Rosny aîné, Op. cit., p. 246.

[6] Ibidem.

[7] J. Bergier, Prefazione all’edizione Rencontre, in J.-H. Rosny aîné, Op. cit., p. 256.


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