Ho il piacere di ospitare sul Crocevia dei Mondi Franco Pezzini, uno tra i più importanti critici italiani del fantastico. È studioso dei rapporti tra letteratura, cinema e antropologia, con particolare attenzione agli aspetti mitico-religiosi e al fantastico. Tra i fondatori della rivista L’Opera al Rosso, è membro del Coordinamento di Redazione de L’Indice dei libri e della redazione di Carmillaonline.

È animatore della Libera Università dell’Immaginario, con cui tiene da anni corsi monografici.

Ha pubblicato svariati saggi, articoli in antologie e riviste di vario genere, confermandosi un punto di assoluto riferimento in materia di letteratura dell’immaginario.

 

 


È appena uscito per Odoya Edizioni il primo dei due volumi sul Conte Dracula di Bram Stoker, intitolato Il Conte incubo. Uno studio fitto di approfondimenti e ricco di validi spunti utili a fare chiarezza sull’opera e sull’autore. Puoi parlarci della genesi e dell’evoluzione di questo progetto editoriale?

FP: Sì, da un paio d’anni sto portando avanti per Odoya una sottocollana, I Classici Pop, di rilettura di testi (appunto) classici: in un’accezione ampia che – per dire – vedrà seguire a questo Tutto Dracula 1 uno studio sull’Eneide. Una rilettura che tenga conto del linguaggio dei nostri giorni – che consideri per esempio le ricadute su schermo e gli altri derivati – nel riaccostarci a testi che continuano a essere di riferimento per il nostro ragionare, immaginare, sognare: testi che ci offrono paradigmi, categorie irrinunciabili. E in questa sottocollana presento percorsi di lettura “testata”, nel senso che i volumi sono un precipitato diretto del materiale dei miei corsi alla Libera Università dell’Immaginario: un centro nato a Torino nell’autunno 2012 proprio per permettermi la condivisione dei risultati di una serie di studi, in forma di incontri (conferenze, lezioni) e di prodotti derivati (appunto libri, eventuali video). Ciò a spiegare anche la forma, i toni di una scrittura destinata inizialmente a una presentazione a voce alta: io racconto il testo e intanto lo commento, come potrebbe fare un amico che consiglia un libro.

E il primo corso che lì avevo tenuto, appunto nel 2012 del centenario della morte di Stoker, era stato un Tutto Dracula in tre stagioni: il risultato è un migliaio di pagine di immersione nell’opera – analizzandola quasi frase per frase – e più in generale nell’orizzonte culturale in cui si colloca… inevitabile dividere in due volumi. Ovviamente ringrazio l’editore per la fiducia dimostratami.

 

Hai già contribuito a diverse pubblicazioni sul vampirismo: Cercando Carmilla. La leggenda della donna vampira (2000), Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue da Carmilla a Van Helsing (2005), The Dark Screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo (2008), e quest’anno, come detto, Il Conte incubo. Cosa ti ha entusiasmato di questa tematica a tal punto da approfondirla in tutte le sue sfaccettature? 

FP: Il vampiro è uno straordinario passepartout, in tutti i sensi. Ha una storia lunghissima dove diventa tutto e il contrario di tutto, dagli impresentabili orchi del folklore a certi modelli insopportabilmente carini della post-postmodernità. Una figura-ossimoro, a cavallo tra ogni possibile opposto, immagine dell’ambiguità moderna ma insieme arcaicissima, che diventa oggi una sorta di super metafora del fantastico permettendone le più varie declinazioni. Si tratta insomma di un modello estremamente ricco di spunti e provocazioni. Oltre che protagonista di storie belle, intriganti, divertenti – e non vergogniamoci mai di queste dimensioni più (apparentemente) “lievi”.

Certo, non tutte le figure presentano lo stesso fascino. Io ero partito con lo scrivere di Carmilla – un personaggio seducente, che mi incalzava da anni – perché avevo trovato una pista praticamente vergine, imbattendomi in quello che veniva presentato da alcuni filoni occultistici come un suo prototipo storico: di lì lunghe ricerche. Ma da Cercando Carmilla avevo dovuto stralciare – per motivi di spazio – un ampio corpus sul cinema: tutto materiale entrato poi in Le vampire, pubblicato a quattro mani con Arianna Conti. Dopo una lunghissima ricerca di un editore… Il testo di Le Fanu è uno dei romanzi più eleganti del fantastico di tutti i tempi, un incredibile dedalo di temi (il doppio/rifrazione, i conflitti generazionali, sessuali, culturali…) che, potremmo dire, apre questioni nuove a ogni lettura.

Poi c’è Dracula, un mattatore assoluto, protagonista di un libro che mi accompagna in continue riletture fin da ragazzo, e amato tantissimo. Dracula è una specie di opera-mondo, dentro c’è tutta l’età vittoriana – dalle minuzie ai grandi paradigmi – e già qualche prefigurazione dei secoli successivi: e mi ha affascinato lavorare anche su tutto ciò che resta implicito, sotto testo ma riconoscibile dai lettori di Stoker – e assai meno oggi.

Ma certo il tema Dracula era immenso, e forse avrei esitato ancora qualche anno a metterci le mani in modo ordinato, se non fosse arrivata da Paolo De Crescenzo la commissione di un volume sul relativo cinema, appunto The Dark Screen. Anche Paolo amava appassionatamente il romanzo di Stoker, ed era alle prese con il miracolo gotico della Gargoyle prima versione: mi ha proposto un affiancamento sul progetto con Angelica Tintori e abbiamo lavorato insieme. Lì si trattava degli schermi di Dracula, ma il sogno era concentrarmi proprio sul romanzo. Con il corso alla Libera Università e ora il dittico per Odoya ho potuto realizzarlo.

D’altra parte la letteratura dell’Ottocento è ricchissima di profili vampirici d’interesse – compreso quello di cui quest’anno festeggiamo il bicentenario, il Lord Ruthven di Polidori – e spesso anche letterariamente convincenti. E anche in seguito ci sono state figure ed epopee di grande fascino (da Signorina Christina di Mircea Eliade allo stupefacente L’ultima notte di Furio Jesi)… insieme a tante altre decisamente più opache. Pensa all’ondata di vampiri del cosiddetto “romanticismo sexy”, con l’accento ora sul primo, ora sul secondo termine: in sostanza quelli della stagione che potremmo definire di Twilight, anche se c’è molto altro… E che pure, va detto, permettono talora l’emersione di discorsi interessanti. Quando l’altro giorno parlavo di vampiri in una scuola e tre classi sono state a sentire con ammirevole – dal mio punto di vista – interesse quasi due ore di lezione sul tema ho trovato conferma che il vampiro, per quanto oggi più defilato che qualche anno fa, è figura che entusiasma ancora le giovani platee.

 

Ragionando sull’epoca – il XIX secolo – in cui il mito letterario dei vampiri è proliferato, mi viene da pensare che il loro successo sia dovuto allo spirito libertino e provocatorio che essi incarnano (caos, irrazionalità, trasgressione sacrilega e libertà sessuale), in antitesi con le rigide restrizioni etiche della borghesia improntate a una logica positivista. Tu cosa ne pensi? Possiamo quindi considerare lo specchio un simbolo di tale razionalismo e dell’etica puritana che, nel non riflettere l’immagine del vampiro, intende censurarne le forze inconsce che scuotono il senso morale dell’individuo?

FP: È difficile capire con certezza quale livello di riflessione teorica, di metafora, Stoker avesse maturato lucidamente dietro la suggestione del mancato rifrangersi del vampiro (che praticamente è una sua invenzione, su basi folkloriche abbastanza vaghe). Ma certo è una delle tante trovate potenti del Dracula, delle prove di un senso di Stoker per il simbolo e coglie anche l’aspetto che suggerisci. Teniamo presente che la letteratura fantastica è per molti versi una provocazione sull’identità e le crisi che la riguardano: rifrazioni assenti o perturbanti, doppi, mutazioni, dinamiche malsane con l’ambiente di appartenenza…

E senz’altro il vampiro, come suggerisci, è anche una figura di eversione alle regole di un mondo. Con un aspetto ambiguo: quella che porta non è una “liberazione”, perché in fondo appartiene a un mondo vecchio e divorante. Uno degli aspetti interessanti della migliore narrativa di vampiri sta appunto nell’ambiguità: nel senso che nel vampiro si rifrangono per opposizione i vampirismi dell’altro lato dello specchio, a svelare anche i “buoni” un po’ meno buoni. Per questo non possiamo rinunciare al vampiro: perché ci smaschera, non permette le soluzioni “facili” che oggi la gente vorrebbe – le scorciatoie becere, i manicheismi banalizzanti, le identificazioni grossolane e ottuse di un nemico. Quel nemico è il nostro vampiro, la rifrazione in cui non ci riconosciamo e che abbiamo lasciato emergere e crescere col nostro egoismo individuale, sociale… È una riflessione che diventa anche politica. E non permette sconti.

 

Da qui mi ricollego a un altro tuo validissimo studio: Victoriana. Maschere e miti, demoni e dei del mondo vittoriano (2016). È proprio in età Vittoriana che Stoker partorisce il Conte Dracula, lasciandolo in ottima compagnia di Carmilla, Varney, Mr. Hyde, Jack lo Squartatore, spettri, maghi e tante altre mostruosità che, come sostieni tu stesso, ancora oggi «continuano a interpellare la nostra fantasia». Secondo te cosa rende quell’epoca un caleidoscopio del fantastico, unico nel suo genere, tanto prolifico da non aver mai smesso di nutrire l’immaginario popolare? 

FP: Diciamo che da un lato si tratta delle prove generali di un mondo globalizzato: lo sfruttamento e la miseria, il conflitto sociale, appunto le crisi dell’identità eccetera. Cioè in nuce nel grande teatro del panorama vittoriano troviamo già gran parte della nostra realtà, trasfigurata attraverso epopee, maschere, eroi… una vera e propria mitologia che “riconosciamo” anche senza coglierne sempre lucidamente i nessi con l’oggi. E d’altra parte proprio il grande sviluppo nell’Ottocento di una letteratura popolare, l’affinarsi dei suoi meccanismi e la genialità di una serie di autori offrono a questa mitologia espressioni di enorme impatto ancora nel nuovo millennio. Poi certo, le figure mitiche si trasformano col tempo, il mito è per definizione plastico perché conosce adattamenti con il mutare della realtà in cui trova risonanza. Non stupiamoci dunque delle trasformazioni ai profili di queste figure mitiche, un po’ come avvenuto per secoli ai protagonisti di altri miti: non devono mai scandalizzarci, anche se possiamo “ritrovarci” meno in un certo tipo di sviluppo. Personalmente non mi turba che il rarefatto Carmilla di Le Fanu si confronti con trasposizioni nel segno del pruriginoso, quel che conta è la qualità e originalità della singola rilettura. E la serie Sherlock è oggettivamente ottima, anche se magari può spiacerci – a livello di gusti – che manchi il panorama vittoriano… Vedremo come sarà il prossimo Dracula in partnership BBC/Netflix annunciato per fine 2019.

Tra l’altro ti ringrazio della valutazione elogiativa su Victoriana: è una sorta di lanterna magica, un testo volutamente non sistematico (anche se sotto sotto un ordine c’è) e “figliato” con modifiche e aggiornamenti da una serie di pezzi apparsi su Carmilla online – dove “Victoriana” è appunto il titolo della serie. Che peraltro continua, quindi mi sembra plausibile che a un certo punto con l’editore vareremo un Victoriana 2

 

Nelle tue pubblicazioni hai trattato anche due opere classiche, mi riferisco a L’ importanza di essere Lucio. Eros, magia e mistero ne «L’Asino d’oro» di Apuleio (2017) e L’ odissea di Encolpio. Sesso, licantropi & labirinti nel Satyricon di Petronio (2017). Anche lì emergono temi quali l’occulto, l’orrore, la voluttuosità e il soprannaturale che addentrano il lettore in un’esperienza labirintica del proprio inconscio – mettendolo a confronto con le paure archetipiche e gli istinti primordiali – da cui uscirne, magari, rinfrancato e più consapevole. Queste letture, intese appunto come viaggio nei meandri più oscuri dell’Io, sin dall’antichità hanno contrassegnato la cultura popolare. Ritieni che nel corso delle epoche la formula di simili labirinti sia cambiata – magari il senso antropologico del percorso o il suo fine ultimo –, oppure si tratta di esperienze cicliche e immutabili nel tempo?

FP: Come esseri umani ci confrontiamo con eventi che restano enormi e sfuggono a una comunicazione banalizzata: penso alla morte, una parola che talora si teme persino di pronunciare, o per esempio a quella categoria della discesa agli inferi che è una realtà interiore molto concreta, che può toccarci (per motivi diversi) anche più di una volta nella vita. E abbiamo bisogno di com-prendere, cioè di trovare parole per affrontare simili labirinti (uso non a caso quest’ultimo termine, che hai usato anche tu e richiama proprio a Petronio, per la sua potenza evocativa). Le soluzioni possono essere diverse, ma esistono effettivamente delle parole-chiave che tornano, delle espressioni (appunto discesa agli inferi…) e delle formule narrative che, magari rivisitate, ci collegano in via diretta a un passato lontano e ci aiutano come macchine per pensare. Spesso espresse con il linguaggio del mito, possono risultare illuminanti a distanza di millenni: e attenzione, qui sto parlando di un discorso antropologico e psicologico, non di un passo successivo come può essere – e per me ha un senso – l’opzione religiosa.

Del resto, e più in generale, sappiamo che nel nostro profondo sedimentano realtà arcaicissime. Paure, desideri, pulsioni ma anche immagini, categorie che sembrano riportare all’alba dell’umanità: i tempi frettolosi della vita urbana fanno dimenticare certi antichi retaggi che lasciano ancora tracce, per esempio, in comunità rurali. Ed è vero che alcuni tipi di esperienze – per esempio rituali – possono far riemergere aspetti di noi tali da stupirci. La letteratura dà conto anche di queste dimensioni.

Ma quanto detto viene poi rivisitato con la sensibilità di una certa epoca, rimodellato, ricondotto a sistemi di valori anche molto diversi. In generale siamo molto più figli del nostro tempo di quanto non pretendiamo: e fantasie, pulsioni, sogni e paure sono per una robusta parte modellate dai tempi brevi della nostra singola vita e dal mondo che ci sta attorno. Esprimiamo in forme, immagini, parole, strutture dialettiche legate a una certa società. Faccio solo un esempio. Pensa a certe antiche paure legate ai volti inferi (o comunque minacciosi) di quella che ipotizziamo fosse la Grande Dea neolitica, poi derubricati in demoni femmina all’arrivo di pastori nomadi con pantheon patriarcali: demoni portatrici d’incubi, succhiatrici di vita, imputate di morti in culla e perdite spermatiche “misteriose”… Ecco, creature simili hanno conosciuto continue mutazioni nel tempo fino a dar corpo alle vampire di certe paure sessiste di età moderna. Come la vamp che minaccia la dignità virile in tante opere del primo Novecento, quando i movimenti per la donna iniziano a sconvolgere un orizzonte patriarcale tradizionale. Ogni diversa società rilegge istanze umanissime come la paura, l’aggressività, il desiderio con tecniche e reazioni proprie. E imponendo, a seconda degli interessi più forti in gioco, certi contenuti.

Diciamo che vale il discorso che affrontiamo con alcuni complici di Carmilla online in un libretto uscito da poco, Immaginari alterati per i tipi Mimesis: l’immaginario può essere vissuto in forma attiva o subito passivamente. Lavorarci significa tentar di decostruire l’immaginario di oppressione che ci viene calato addosso (a tutti i livelli, personale, sociale…) e reagire elaborando un immaginario di resistenza. Può essere resistenza a pesi che incidono sulla nostra vita individuale: ipoteche del passato, eventi traumatici, strozzature della vita che ci è toccata in quest’unica volta che siamo al mondo. O invece riguardare una dimensione più sociale, o decisamente politica.

 

Degne di nota sono anche le tue pubblicazioni sul Frankenstein di Shelley (Fuoco e carne di Prometeo, 2017) e su Poe (Edgar Allan Poe. La camera pentagonale, 2018) che sviscerano fino al midollo scene e retroscena di questi due monumenti della letteratura gotica. Al di là dei meriti, ritieni che Mary Shelley e Poe abbiano dei punti in comune, magari rintracciabili in qualche accorgimento specifico delle rispettive opere? 

FP: Sono due autori molto diversi, caratterialmente e stilisticamente. Però entrambi hanno scelto di confrontarsi con le proprie dimensioni d’ombra, mettendosi in gioco in termini personali, viscerali. Nel caso di Mary Shelley, Frankenstein erutta davvero dalle pieghe della sua vita interiore: certo, c’è una mediazione letteraria (una dimensione che non va mai dimenticata, se non vogliamo cadere in santini naïf) ma l’autrice lascia libera una Creatura che in qualche modo è lei stessa, proiettando i propri turbamenti con disponibilità impressionante. Il caso di Poe è più ambiguo per la sciarada di maschere e autofiction con cui lui, figlio di attori, si propone a lettori/spettatori: ho dato – anzi sto dando, perché il corso Tutto Poe alla Libera Università continua, ed è uscito solo il primo volume – parecchio spazio all’analisi di questa dimensione teatrale, che secondo me è fortissima in lui. Non parlerei tanto di accorgimenti comuni e i due si rapportano a mondi parecchio diversi, ma restituiscono un po’ il senso di quanto il gotico sia vario. Anche se la produzione di Poe è gotica solo in parte.

 

A quale altro autore del perturbante vorresti dedicare un tuo futuro lavoro? Eventualmente su quale suo scritto ti piacerebbe concentrarti?

FP: Allora, per quanto riguarda testi scritti, conto di presentare anzitutto il materiale dei corsi che ho tenuto. Per esempio, dopo vent’anni dal volumetto Cercando Carmilla ho tutto il materiale delle ricerche portate avanti in Stiria per un approfondimento ampio, con notizie assolutamente nuove. Ho testi sul primo fantastico e gotico, su Conan Doyle, su autori legati al mondo dell’occultismo inglese… e su altri ho comunque letture di anni, ipotesi, progetti. In questo momento mi è un po’ difficile dire di più, anche perché ogni proposta di volume è da verificare con l’editore.

 

Soffermiamoci sul ruolo del fantastico oggigiorno. Ritieni che rispetto al passato esso sia schiacciato da sovrastrutture politiche e commerciali, che abbia quindi perso quello slancio innovativo barattandolo con le logiche consumistiche imperanti? Oppure è cambiato sotto altri punti di vista? Personalmente, ritengo che la piccola editoria italiana costituisca una delle rare oasi per la letteratura di genere di qualità, e i tuoi lavori contribuiscono sicuramente a preservarla.  

FP: Sei molto gentile. Mah, per il suo carattere di linguaggio-laboratorio il fantastico (inteso nell’accezione più ampia) si è sempre confrontato in senso anche più diretto di altri generi con strutture e sovrastrutture sociali, politiche, economiche, ora in senso più passivo e indotto e ora invece critico, attivo, provocatorio: e torniamo al discorso più ampio dell’immaginario. Le differenze riguardano i sottogeneri: oggi per esempio, a patire è la fantascienza, e in effetti il futuro è il grande assente dalle coniugazioni dei giovani. Mentre, come negli anni Ottanta, c’è il dilagare di un fantasy che – a grandi numeri e con illustri eccezioni – risulta più facile e assai meno provocatorio. E che oltretutto troppo spesso gioca a ricalco di modelli già indefinitamente imitati: Tolkien, per esempio. Per carità, la categoria della fanfiction ha una sua dignità e a volte persino una vendibilità. Ma gli autori tanto imitati sono stati a loro tempo originali, innovando i paradigmi: perché l’imitazione non può tendere proprio a quello, all’inseguirli nel loro sforzo di novità? Quanto alle vendutissime saghe distopiche young adults (in genere d’importazione) salutate come nuova alba della fantascienza sono in realtà in genere dei fantasy travestiti, e spesso ideologicamente equivoci: magari tecnicamente non brutti e tali da permettere discorsi interessanti in sede critica, ma che si pongono ormai come il classico usato sicuro.

Vale del resto per il fantastico quanto vale per il resto del panorama culturale, ma direi anche civile e umano. In questa nostra Italia, dal mondo del lavoro alla politica, la profondità non è considerata un bene primario: e se non c’è uno spessore, una profondità (non necessariamente di erudizione, ma di umanità), una latitudine di sguardo, la buona letteratura fa fatica a crescere. Tra l’altro la scrittura riflette anche la lettura degli autori, perché non credo che (rare eccezioni a parte) si possa essere buoni scrittori se non si è anche buoni lettori. Mi è capitato di sentire scrittori o pretesi tali, anche di fantastico, ammettere che leggono pochissimo. Lo vedo come un problema, ma allora si capiscono meglio le prove a ricalco: uno ignora che esistono interi continenti. E a quel punto serve poco seguire scuole di scrittura. Ecco, c’è bisogno che chi scrive fantastico non si ghettizzi, esplori anche altri filoni, attinga qualità soprattutto dai classici. Una civiltà – in senso letterario, ma non solo – si difende anche e proprio a partire dai classici.

Però, nonostante questo, non vedo affatto male il fantastico italiano: esiste una serie di autori straordinari, anche se solo in parte premiati a livello di grande visibilità. Non penso solo a un nome eccellente come Valerio Evangelisti, che pubblica con Mondadori, o ai diversi approcci al fantastico di Danilo Arona, Gianfranco Manfredi o Claudio Vergnani. C’è la piccola e attivissima officina legata alla rivista LN | librinuovi di Torino, con intorno una nebulosa di scrittori molto bravi. Ci sono autori che alternano con qualità scintillante genere e mainstream, come Alessandro Defilippi o Lorenza Ghinelli. C’è il filone visionario che, sotto i labari Tunué, Vanni Santoni sta coltivando con grandi risultati (Funetta, Labbate…). C’è un certo poliziesco impastato di fantastico – penso per esempio a Cristiana Astori – più tutte le altre anime di una schiera variegatissima, dove citare soltanto qualcuno non significa far torto ad altri. Pur tra mille problemi si nota vitalità, e questo dà speranza.

Sicuramente la piccola editoria osa dove oggi i grandi editori non si sentono di azzardare investimenti. È un peccato perché alcuni autori di alta qualità restano tagliati fuori da una distribuzione importante – che invece magari offre spazio a contributi dimenticabili, veicolati da schermi tv eccetera. Ma è ovvio, finché la gente li compra. C’è invece spesso qualcosa di eroico nell’esperienza dei piccoli editori, e chi si occupa di fantastico non può che nutrire una sincera gratitudine per il loro sforzo.

 

Scendiamo un po’ più sul personale. Com’è nato in te l’interesse per questa letteratura e cosa ti motiva nel coltivarlo ancora oggi? 

FP: Oh, sono sempre stato il classico bambino che ama i mostri, le storie di paura… anche se a casa dei miei trovavo solo quelli della mitologia, non certo i gotici. Ma all’inizio degli anni Settanta – io sono del ’62 – è iniziato il grande revival magico che ha traghettato sui giornali tutto l’occulto fermentato nel decennio precedente sull’onda del successo dei film Hammer. E ho potuto leggere di tutto, imbattendomi in vampiri, spiriti, stregoni… A introdurmi al Dracula sono stati gli articoli sui rotocalchi, come si chiamavano allora, quando Raymond McNally e Radu Florescu stavano presentando con clamore la figura del voivoda storico. Quando tanti anni dopo ho conosciuto McNally, mandandogli il mio primo libretto su Carmilla – avevo scoperto che stava facendo ricerche sul tema, un uomo gentilissimo e pieno d’entusiasmo – e lui ha chiesto informazioni a me, puoi immaginare quale orgoglio io abbia provato.

Quanto a oggi, la passione non si è certo placata. Ma con gli anni mi sono reso conto di come proprio tali storie nella loro ambiguità mitica ci permettano anche di parlare di cose serissime, di mettere a fuoco dimensioni che altrimenti sfuggirebbero. Il mito è una spiegazione della realtà (personale, collettiva, cosmica…) condotta con un linguaggio narrativo e simbolico e non scientifico: quindi per millenni è stato l’unica – o quasi – forma a disposizione per parlare dei misteri che abbiamo dentro e del rapporto con la realtà. E anche oggi non possiamo rinunciarvi: esistono dimensioni che sembrano trovare espressione adeguata solo con una parola narrante – e il fantastico, linguaggio-laboratorio, ci offre straordinarie macchine per pensare. A ciò che abbiamo dentro e al rapporto con quel che abbiamo attorno. Non è poco…

 

Nel torbido mare della letteratura nera di cui ti occupi, hai un autore e una sua opera che prediligi in assoluto?  

FP: (ride) Difficile rispondere… Certo, Dracula e Carmilla sono per me testi capitali. Ma penso anche a gioielli come il Vathek, o Il cane dei Baskerville che è anche un grande romanzo gotico – e altri. D’altra parte ci sono anche altri filoni letterari che per me (intendo in senso personalissimo) sono fondamentali. Penso a Omero o all’Eneide, che rileggo periodicamente… penso alla gioia offerta dalle pagine di Balzac o di Dumas, o a un capolavoro pazzesco come il Weir di Hermiston di Stevenson. In realtà non vedo separazioni troppo nette tra rami diversi della letteratura.

 

Siamo giunti al momento dei saluti. Ti ringrazio per la disponibilità e spero di poter avere nuovamente il piacere di ospitarti sul Crocevia. Ancora complimenti Franco, e in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri.

FP: Perbacco, grazie a te dell’attenzione. E si salvi il lupo (non dico “crepi”, il Conte non apprezzerebbe) anche per i progetti futuri – grazie davvero, ne ho bisogno!


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